Grande Cucina

L’Alfabeto di Ellegì di Licia Granello. I come Ingrediente perduto

C'è stato un tempo in cui la semplicità del cibo era considerata un difetto, la mancanza di esotismi un limite, l'ingrediente di prossimità banale.

Erano gli anni ’70. Il boom economico del decennio precedente aveva sancito in modo irrevocabile la fine dell’economia di guerra a colpi di fettine di vitello e pasticcini domenicali. Il passo successivo si era tradotto nel trionfo di salmone e champignon, rucola e panna, su su fino al risotto con le fragole, senza contezza di stagionalità o tipologie di coltivazione.

Una sorta di rivisitazione di quanto succedeva nel Rinascimento, quando spezie del Nuovo mondo e stranezze culinarie abitavano pranzi e banchetti, certificando il potere e la posizione sociale dei padroni di casa.

La scommessa del Don Alfonso

In direzione ostinata e contraria – per dirla con De Andrè – pochi, pochissimi cuochi, impermeabili alla tentazione di affascinare i clienti figli della nuova borghesia a colpi di penne salmone e Vodka.

Alfonso Iaccarino con la moglie Livia sono stati forse i primi della lista.

Quando in Costiera imperversavano gli improbabili piatti della (malintesa) nouvelle cuisine, hanno recuperato il San Marzano originario, avviato il paradiso agricolo di Punta Campanella e messo in menu gli spaghetti al pomodoro fresco, scommessa tanto folle quanto vincente.

Aglio orsino e peperone crusco

Il tempo ha premiato la loro follia, il ristorante è diventato meta imperdibile per gourmet di tutto il mondo.

In scia ad Alfonso, un’intera generazione di nuovi cuochi ha sposato la causa dell’ingrediente perduto e rinsaldando il legame forte e virtuoso tra chef e produttore.

Nei corsi e ricorsi storici della gastronomia, la cucina tecno-emozionale ha fatto traballare non poco questo equilibrio, spingendo l’acceleratore sulla forma spesso a discapito della sostanza.

Ma negli ultimi anni la clessidra si è nuovamente capovolta, grazie alla nuova consapevolezza del rapporto tra cibo e salute (nostra) e tra ecocompatibilità delle produzioni alimentari e salute (della terra).

Così abbiamo (ri)scoperto aglio orsino e peperoni cruschi, lievitazioni naturali e fermentati, farine d’antàn e vini senza solfiti.

I nuovi seguaci del km giusto

Il tradizionale appuntamento “Una promessa è una promessa” all’interno dell’ultima Festavico da questo punto di vista è stato illuminante.

Con la sola eccezione del caviale utilizzato in una ricetta, i tredici giovani chef invitati hanno attinto a piene mani alla cesta virtuale degli ingredienti cosiddetti poveri. Pesce azzurro (pelle compresa!) e melanzane, lenticchie e miele, frattaglie e piselli. Tutti piatti molto buoni, alcuni eccellenti, senza fatiche digestive da scontare.

E insieme ai piatti, i racconti (veri, non millantati) di coltivazioni recuperate e nuove alleanze, in nome di una ristorazione – che significa anche divulgazione della cultura alimentare – rispettosa e orgogliosa della propria identità. Poi vanno benissimo yuzu e tomatillo: la cucina è il regno per antonomasia delle contaminazioni, sociali, geografiche, culturali.

La vera sfida è dunque saper andare dalle stalle alle stelle. Senza perdersi niente per strada.

Foto: Sizie’s Farm – Flick.com

a cura di Licia Granello