
Una trasformazione più profonda di quanto sembri. La ristorazione italiana sta attraversando un cambiamento reale. Più ampio di quanto spesso si racconta. Non si tratta solo di piatti nuovi o format alla moda. Il cambiamento tocca le fondamenta: l’identità dei locali, il ruolo della sala, i modelli di business. Ma anche la cultura del mestiere, la formazione e la gestione del lavoro.
Alcuni lo osservano con preoccupazione. Altri con diffidenza. Qualcuno con entusiasmo. Ma la verità è che non è il cambiamento in sé a doverci spaventare, quanto piuttosto la nostra capacità (o incapacità) di capirlo, leggerlo, guidarlo.
Ogni fase di evoluzione – anche se genera instabilità – può diventare un’occasione. Per i ristoratori, per chi lavora nel settore, per chi forma le nuove generazioni, per chi racconta questo mondo.
Dal piatto alla sala: uno spostamento necessario
Si continua a parlare di chef e di cucina. È normale: lo chef è il volto riconoscibile, il piatto è immediato. Ma la ristorazione è un sistema e il piatto, da solo, non basta più.
Il vero cambiamento è nella sala. Nel servizio, nell’accoglienza, nel modo di costruire l’esperienza. Nell’equilibrio tra informalità e rigore. Nella capacità di ascolto, di racconto, di gestione del tempo.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una trasformazione silenziosa: il maître evolve, il sommelier cambia ruolo, nascono figure ibride. Sempre più spesso la sala non esegue, ma co-progetta. E chi guida un ristorante lo sa: l’esperienza inizia da qui.
Lo sottolinea bene anche Roberto Carcangiu, chef, consulente e formatore: «Oggi non basta più fare un bel piatto. Il cliente vuole essere accolto, ascoltato, coinvolto. La cucina è il cuore, ma l’esperienza è un corpo intero. Per me, il cambiamento più forte è stato proprio questo: imparare a lavorare insieme alla sala, non sopra o sotto. È un dialogo continuo. E solo così si costruisce qualcosa che dura».
Un cambiamento culturale, prima che operativo. E che richiede formazione, ascolto e lavoro comune.
Il nodo irrisolto: il management
Un altro punto centrale, ancora poco esplorato, è la cultura manageriale. Non basta il talento. Servono visione, numeri, pianificazione. Bisogna saper leggere dati, definire il posizionamento, costruire modelli sostenibili. A lungo termine.
Troppo spesso ci sono grandi cuochi in cucina, ma manca un responsabile del conto economico. O un dialogo concreto tra creatività e sostenibilità. Non è un dettaglio. In un momento in cui crescono i costi, cambiano le abitudini, aumentano le aspettative, ignorare il lato gestionale è un rischio.
Parlare oggi di “cultura del lavoro” significa anche garantire continuità, equilibrio e margini. Non solo inventiva.
I dati FIPE 2025: più occupati, meno imprese, produttività ferma
Un quadro utile per leggere questo scenario arriva dal Rapporto Ristorazione 2025 di FIPE – Confcommercio.
– Il valore aggiunto del settore ha raggiunto 59,3 miliardi di euro (+1,4% sul 2023)
– I consumi sono saliti a 96 miliardi di euro, ma restano sotto ai livelli pre-pandemia
– Il numero di imprese si attesta a 328.000, in calo dell’1,2%
– Forte calo per i bar (-3,3%), mentre si rafforzano format ibridi e nuove offerte
– Gli occupati salgono a 1,5 milioni, con +6,7% di lavoratori dipendenti
– La fascia under 30 rappresenta il 39,7% della forza lavoro
– Crescono anche gli over 50 (+10%), segnale di un mercato che si allarga ma invecchia
– La produttività è in calo e sotto i livelli di dieci anni fa
– Permane una forte difficoltà nel reperire personale qualificato
– Il 40% delle imprese ha investito nel 2024, per un valore complessivo di 2 miliardi di euro
Come ha sottolineato il Presidente di FIPE, Lino Enrico Stoppani, oggi è fondamentale rafforzare la sicurezza contrattuale, la formazione professionale e ripensare i modelli organizzativi. Perché il settore non si regge più solo sul talento individuale, ma su struttura e visione.
Una visione condivisa anche da Daniel Stoico, Operations director del Congusto Institute: «I dati FIPE lo dicono chiaramente: più occupazione, ma meno imprese e produttività in calo. Questo ci dice una cosa sola, dobbiamo investire in cultura gestionale. Le idee non mancano, ma spesso mancano gli strumenti. Budget, risorse umane, posizionamento: chi non sa tenere insieme questi elementi oggi, rischia di restare indietro. Anche la ristorazione ha bisogno di visione manageriale, non solo creativa».
Cosa resta e cosa cambia
La domanda vera è: cosa resta del settore che conosciamo? E cosa sta cambiando davvero?
Rimarranno la qualità del mestiere, il valore della formazione, la forza delle relazioni umane. Rimarrà l’idea che cucinare – e servire – è un atto culturale.
Ma cambieranno le forme:
– Locali più piccoli, agili, con meno coperti e più identità.
– Format ibridi, a metà tra fine dining e casual.
– Menu più essenziali, costruiti per essere sostenibili.
– Esperienze su misura, legate al territorio e alla narrazione.
– Maggiore attenzione alla qualità del lavoro, agli orari, alla vita delle persone.
Quello che si sta delineando non è un effetto moda. È un passaggio generazionale. Un’evoluzione che sta ridefinendo le priorità: per chi apre un ristorante, per chi ci lavora, per chi ci va a mangiare.
Leggere il presente, costruire il domani
Il cambiamento non è una crisi ma un assestamento. Una fase in cui la ristorazione italiana cerca un nuovo equilibrio, più sostenibile, più professionale, più consapevole.
Chi saprà interpretare questa fase, oggi, potrà fare la differenza domani.
Foto: Pexels
a cura di Federico Lorefice
Condividi l'articolo
Scegli su quale Social Network vuoi condividere