Dark kitchen: nome internazionale per confondere le acque
In Italia abbiamo un talento: quando vogliamo nobilitare un concetto, lo infiocchettiamo con un nome inglese. Quando invece vogliamo confondere le acque, basta cambiare etichetta. Ed ecco nascere la dark kitchen.
Ma dietro questa definizione internazionale si nasconde un’operazione tutt’altro che evoluta: stiamo parlando, in sostanza, di cucine in affitto, in appalto o subappalto.
La scelta lessicale non è innocente: se le chiamassimo con il loro vero nome, si capirebbe subito la natura del fenomeno.
Un modello trapiantato male
La dark kitchen è figlia di un modello statunitense: metropoli da milioni di abitanti, mobilità limitata, scontrini medi più alti e dinamiche logistiche radicalmente diverse dalle nostre.
Trapiantarla in Italia, in un mercato saturo, dai margini in caduta libera e con un’offerta che supera già abbondantemente la domanda, suona come una forzatura. Se non peggio.
Costi più alti, valore più basso
Mi sono sempre dichiarato critico verso queste formule. Non vedo come possano avere senso in un contesto dove ogni euro va centellinato, ogni turno ottimizzato, ogni grammo valorizzato.
La dark kitchen alza i costi fissi, introduce intermediari e frammenta ancora di più un settore che avrebbe invece bisogno di aggregarsi, razionalizzarsi, rialzare la testa.
E invece no: ci inventiamo modelli che sembrano soluzioni, ma sono solo scorciatoie per chi della ristorazione non ha capito (o non vuole capire) la fatica e la dedizione.
Il nodo dei controlli e della responsabilità
Un altro aspetto che mi lascia perplesso: i controlli. Chi assicura che chi affitta una cucina abbia tutte le carte in regola? Formazione, igiene, rispetto delle normative?
Oppure basta una partita IVA, un rider e un packaging anonimo per entrare nel “mercato”?
E di quale mercato parliamo, poi? Di uno in cui ogni mattina qualcuno si sveglia, affitta un modulo e si proclama professionista?
Il rischio più grande: la deresponsabilizzazione
Ecco, questo è il vero rischio: la deresponsabilizzazione. Perché tutto questo, alla fine, uccide l’artigianalità. Quella vera. Quella fatta di saracinesche alzate ogni mattina, mani che impastano, volti riconoscibili, storie costruite nel tempo.
Inserire logiche industriali in un comparto fondato su identità, tradizione e prossimità significa snaturarlo. Non è innovazione: è smaterializzazione.
Il simbolismo del buio
E il nome, “dark”, non è casuale. Richiama atmosfere cupe, decadenti, simbolismi inquieti. E forse è proprio lì la risposta.
È un modello che oscura la filiera, che lavora nell’ombra, che confonde invece di chiarire. Ma la ristorazione, quella vera, ha bisogno di luce. Di trasparenza. Di professionalità. Di gente che ci mette la faccia. E non solo un marchio stampato su una vaschetta da delivery.
La luce resta accesa
La dark kitchen forse ha senso in contesti molto specifici. Ma nel nostro, dove ogni piatto è cultura, territorio, relazione, esperienza… no, grazie.
Preferisco continuare a cucinare con la luce accesa. E, anche se faticoso, mettendoci la faccia, oltre che le mani e il pensiero.
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