Il Panificatore Italiano

Carlo Di Cristo: la tridimensionalità del pane

Ricercatore universitario e docente di zoologia all’Università del Sannio, è considerato un maestro nel campo della lievitazione e della fermentazione naturale, eppure si occupa di panificazione “solo” da 9 anni: abbiamo chiesto a Carlo Di Cristo in che cosa può e deve evolvere il pane… e chi lo fa.

Sul fatto che i panificatori debbano fare un salto in avanti in termini di metodo, tecnologia ed estetica sono più o meno tutti d’accordo… gli osservatori esterni, perché invece molti panificatori incuranti del fatto che vent’anni fa abbiamo cambiato millennio e non solo secolo, continuano a pensare che occorra fare il pane “come si è sempre fatto”. Il problema dell’evoluzione della produzione della e, conseguentemente, della professione non li sfiora perché sono i “paladini” della tradizione. Quest’ultimo termine sta diventando decisamente “ingombrante” ed è molto spesso abusato, anche per colpa di noi comunicatori. Sicuramente quello di tradizione è un concetto frainteso, gli si attribuisce un significato di immutabilità che non esiste nemmeno nell’etimologia della parola: tradizione viene dal latino “traditio” che significa passaggio. Quindi descrive un movimento e non la cristallizzazione di una procedura. Di questo e molto altro ho parlato con Carlo Di Cristo, docente, fornaio e co-autore di Fermentazioni Spontanee, un best seller di Italian Gourmet.  Ne abbiamo ricavato un punto di vista, a mio avviso, molto interessante.

Perché secondo te in Italia è così difficile applicare un metodo all’innovazione? In panificazione è evidente, ma è così anche in altri settori: si preferisce copiare, piuttosto che trarre spunto e personalizzare.

Guarda come è piccolo il mondo, proprio ieri facevo questa considerazione guardando alcune fotografie di un pane multi-cereali realizzato con l’orzo tostato, alcuni semi e determinate farine. È un pane che ho proposto diversi anni fa e… mica dico che l’ho inventato perché, pure io, l’avrò visto da qualche parte, ma l’ho comunque adattato alle mie necessità. Eppure, ho visto che qualcuno se ne è attribuito l’invenzione. Ormai in sei anni sono passate sotto le mie mani almeno una trentina di persone che poi hanno preso altre strade. Posto che ci sta pure che acquisiscano delle informazioni da altri – anzi deve essere così – quello che stona è che le informazioni dovrebbero costituire un substrato culturale, non essere utilizzate per riprodurre una stupida copia. La stupidaggine sta nel fatto che piuttosto che capire che tutto quello che facciamo è un processo in transizione e che ognuno può giocare il proprio ruolo in una fase evolutiva, si preferisce la stagnazione della copia eterna pur di avere i famosi “15 minuti di celebrità” di cui parlava Andy Warhol.

Nei libri scientifici di solito alla fine c’è la bibliografia, nel food bisognerebbe almeno avere il coraggio di citare le fonti di ispirazione…

Quello che stai dicendo tu è uno spaccato di una realtà un po’ più grande. Sai che cosa manca in Italia? L’idea della scuola. Ed è un peccato, perché era un concetto nostro, che ci derivava dagli antichi greci. Abbiamo perso il concetto di scuola, cioè di un maestro che trasferiva il suo sapere ai propri discepoli, come è accaduto per Cimabue e Giotto, per esempio. Il maestro era contentissimo se – grazie al suo sapere – Giotto diventava un artista ancora migliore di quanto lo era stato lui. Invece oggi in Italia, dove tutto è estetica e vanagloria, piuttosto che sottolineare che la diversità di ognuno di noi consente di avere una peculiarità di prodotto, un’unicità che permetterebbe di dire che quel prodotto è tuo e solo tuo, si preferisce copiare e bloccare la trasformazione del processo evolutivo. Manca, alla fine, una personalità critica tale da dare personalità e personalizzazione a quello che si fa.

Secondo te un approccio da metodo scientifico all’innovazione, quali vantaggi porterebbe?

Il metodo scientifico si caratterizza principalmente per una cosa: la replicabilità. In un laboratorio è fondamentale il fatto che cambino i musicisti, ma la musica resti la stessa. Tutti ci si lamenta che dopo solo pochi mesi di esperienza i ragazzi molto spesso se ne vadano. Ebbene il metodo scientifico aiuta ad avere costanza di prodotto, anche in queste situazioni. Se hai un metodo, mantieni uniformità di produzione e questo – oltre a parati le spalle in laboratorio – avvantaggia anche nei rapporti con quei clienti che cercano un prodotto costante, che non cambi nel tempo. In più educa le persone, che in un futuro prossimo faranno un’esperienza propria si porteranno un bagaglio di informazioni che applicheranno nel modo corretto e che gli darà la tranquillità e l’occasione di poter personalizzare il proprio prodotto. Se hai la concezione di quello che ti sta succedendo tra le mani e di quali sono le variabili che puoi considerare, là potrai intervenire per migliorare, cambiare e – soprattutto – avrai la capacità di non insistere nell’errore. Il metodo scientifico è alla base dell’evoluzione.

Puoi specificare meglio questo concetto a una che non ha decisamente una predisposizione al metodo scientifico?

Se non padroneggi le regole che stanno alla base dei singoli processi, non hai la possibilità di vedere oltre quello che stai facendo. Se capisci il perché delle cose, invece, potrai evolvere. Altrimenti perderai tempo e basta, perché non avrai la possibilità di evitare che sia il caso a governare la tua creatività.

Si sente spesso parlare di carenza di materie prime e di possibili ingredienti sostitutivi, come la molto citata farina di grillo. Secondo te il futuro va in questa direzione?

Sicuramente il sistema dell’approvvigionamento è stato abbondantemente messo in crisi. Se poi ci mettiamo un po’ di mala-informazione, come quella che spesso circola intorno al cibo, non è nemmeno più solo un problema di approvvigionamento. Diventa un problema di sostenibilità. Che ci siano all’orizzonte delle alternative è fuori discussione, delle farine di insetti si sente parlare da tanto tempo. Tuttavia, quello che deve muovere le nostre scelte è un fatto culturale e non il profilarsi di una carenza, perché quando c’è una carenza ti appigli a qualunque cosa. Secondo me, nel nostro caso particolare il limite non sono le materie prime: l’unica vera frontiera che si sta perseguendo nelle farine è quella di aumentare la quantità di amido resistente all’interno dei grani e, quindi della farina.

Ma come amido? È tanto vituperato che io pensavo che prima o poi l’avrebbero vietato per legge…

Sì, ma c’è amido e amido. Questo è “resistente” e può costituire una corretta deriva: assumere cibi che non inducano picchi glicemici (di insulina prima e di glicemia poi). Io su questo gioco spesso. Tutti quanti ripetono a pappagallo il concetto sbagliato della digeribilità. In realtà il futuro è la non-digeribilità. È questo il perché del fatto che l’amido si chiama “resistente” perché non viene digerito proprio, quindi non viene nemmeno rotto e viene espulso direttamente, in modo da non provocare picchi glicemici. Secondo me, i molini dovrebbero andare in questa direzione scrollandosi di dosso il passato e la tradizione e guardando invece con un occhio diverso alla ricerca e allo sviluppo.

Nel food il concetto di tradizione è confuso con quello di passato. Due parole che non sono affatto sinonimi. Tu che cosa ne pensi?

Penso che – parlando di tradizione – si vogliano fare dei prodotti “vintage” attribuendo loro una semplicità che non gli appartiene. Ma arcaico non vuol dire semplice: pensa al panettone. È un prodotto tradizionale, ma è complicatissimo da realizzare!

Il senso dovrebbe essere quello di non stravolgere la cultura gastronomica, senza però diventarne schiavi.

Basterebbe partire da un presupposto: la tradizione è un’innovazione che ce l’ha fatta. Perché la tradizione non è sempre esistita. Persino il Presepe – una tradizione tutta italiana – prima della nascita di Gesù non c’era. Eppure oggi lo è. La tradizione non viene mica dal big bang: è un prodotto che deriva da qualcosa di diverso e che a un certo punto è stata “canonizzata” con criteri che dipendono da prodotto a prodotto. Ma questo non significa che debba restare immutabile nel tempo! Come se la tradizione fosse qualcosa di rigido, fermo, stabile da migliaia di anni. Ma come potrebbe essere tradizionale un prodotto come il panettone che – per come lo intendiamo oggi –  si fa dai primi del ‘900, quando in oltre un secolo tutto il comparto delle materie prime si è evoluto!

Abbiamo parlato di tradizione, tu invece come lo vedi il prodotto del futuro?

Spero che faccia più presa una conoscenza scientifica o che almeno si vada verso una maggiore presa di coscienza degli operatori del settore. Perché questo farà cadere alcune preclusioni che sono basate proprio sul fatto che è mancata la scolarizzazione. Vorrei non dover sentire più “si è sempre fatto così, continuiamo a fare in questo modo”. Il futuro, invece, è guardare il prodotto in modo diverso. Secondo me nei prossimi anni si giocherà moltissimo sulla struttura: a me piace pensare alla tridimensionalità del pane. Il pane ha una struttura, delle caratteristiche organolettiche che, insieme formano la sua bi-demensionalità, e poi c’è una terza dimensione che è la funzionalità del pane, che è un elemento che spesso si perde. Il pane diventa “lo stupido della tavola”. Sta là, di qualunque formato sia, qualunque forma abbia, con qualunque cereale sia stato realizzato: sta là come accompagnamento. Quando ci si chiederà a che cosa deve servire il pane, si potrà lavorare sulla struttura, sulla qualità della materia prima, intesa soprattutto dal punto di vista della sua funzione, come abbiamo detto prima parlando dell’amido danneggiato. Se si lavora su miscele low-carb che sono sì frutto di una comunicazione sbagliata dei medici, ma di cui non possiamo tenere conto, allora si potrà parlare di un futuro per il pane.

Puoi spiegarlo meglio?

Se passa il concetto che per dimagrire un medico non ti può prescrivere di mangiare di meno e fare più attività fisica, perché la maggior parte della gente è pigra, smarchiamo il fatto che l’unica cosa che può fare e prescrivere una minore assunzione di carboidrati. Non è corretto, ma non possiamo non tenerne conto se produciamo cibo a base di carboidrati… ci piaccia o non ci piaccia la maggior parte dei nutrizionisti condizionerà i nostri clienti. Invece possiamo ragionare in termini di scelta di materie prime “salutistiche”, anche se il termine non mi piace; una struttura che sia più attraente, perché viviamo in un mondo in cui l’apparenza conta, eccome; e una funzionalità sempre più spiccata del prodotto.

E la professione come cambierà?

Si va verso un’integrazione di più figure professionali. Solo che fino ad oggi questo concetto significa che, per esempio un pasticcere fa un prodotto da fornaio o viceversa. Secondo me invece va proprio creata una nuova figura “integrata” di artigiano che deve sapere di panificazione, di pasticceria e anche di cucina e che porti alla creazione di prodotti nuovi. Una figura che non faccia – lo dico solo a titolo di esempio – il “solito cestino del pane” ma che crei invece prodotti nuovi che si integrino con il resto della cucina, sempre per seguire questo esempio. Tra panificazione e pasticceria il percorso sarebbe semplice, ma non lo fa nessuno. Ci riempiamo la bocca con la parola “baker” ma nei fatti questa figura professionale non esiste. Qualcuno che inventi una gamma di prodotti nuovi combinando le conoscenze della panetteria con quelle della pasticceria, ma non per fare un croissant, ma per fare un prodotto nuovo, che non esiste.

 

Carlo Di Cristo: il progetto di FOORN

Oggi come oggi, quando ci si approccia a Foorn, quello che vedono tutti è un negozio dove c’è una caffetteria, una bottega dove si vendono prodotti da forno e una pizzeria. Ma questa è la punta di un iceberg, Foorn è molto di più: è un vero e proprio ecosistema. È un punto vendita originario, una nuova struttura sorta a Napoli, un laboratorio di produzione realizzato un anno fa e che funziona da cuore della produzione dei due punti vendita, ma che il grosso lo fa con la distribuzione dei prodotti che realizza. Ma Foorn è anche una cooperativa in Cilento, una azienda agricola dove vengono prese delle materie prime che vengono trasformate e che poi tornano a Foorn non per essere vendute, ma per essere utilizzate nell’ambito dei suoi processi. È troppo banale parlare di locale polivalente, perché c’è un eco-sistema che gli ruota intorno.

C’è molto dell’esperienza di Soul Crumbs: non siamo sostenibili al 100% però l’idea è quella di creare un sistema quanto più radicato possibile che nasce dalla considerazione che oggi, se apri un panificio, non sei competitivo, se non diversifichi. Noi abbiamo questa capacità e la gente ce lo riconosce, nonostante siamo quelli con il prezzo più alto di tutta la Campania. Nonostante il prezzo, la vendita di pane è costante e, anzi, in leggera crescita. Questo significa che chi ha fatto una determinata scelta non torna più indietro. Anche noi a Foorn facciamo delle scelte, creiamo uno zoccolo duro di clienti e questo vale anche per la pizzeria: Salvatore è molto conosciuto e competente (è un tecnologo alimentare). Però neppure questo basta a “sfamare” la nostra macchina che conta più di 20 dipendenti e paga, come tutti, anche il rincaro di ogni cosa.

Noi siamo partiti da una struttura che doveva essere autosufficiente e che doveva aprire il 4 marzo del 2020 e che ha aperto a luglio portandosi dietro la zavorra del 2020. Il 2021 è stato difficile, ma è andato molto meglio. Nel 2022 abbiamo rilanciato, non abbiamo lasciato casa nessuno e abbiamo in preventivo di costruire un opificio di due piani (600 mq ciascuno). Un piano verrà dedicato alla formazione del nostro personale. Stiamo cercando di diventare più sostenibili possibile e, soprattutto, stiamo cercando di formare delle persone per Foorn.

Oggi, nonostante il santo lavoro delle scuole professionali, la classe che viene formata non ha la capacità di lavorare in maniera costante su un progetto, vuole saltare di fiore in fiore. Questa generazione, se non cambia, non sarà né carne né pesce: per questo faremo formazione per il personale che abbiamo noi. Perché ogni funzione ha una sua specifica formazione. Come vedi ora c’è solo la punta dell’iceberg, il futuro sarà di crescita ulteriore.

 

Carlo Di Cristo e la tecnologia

Molti vedono la tecnologia come l’arte dello sciamano che si inserisce in una linea tradizionale: è un autogol clamoroso. I panificatori devono perdere il vizio di pensare di essere ancora nel medioevo e che tutto ciò che non è codificato diventi un anatema. Con la legge sul pane fresco, per esempio, questa mentalità ha portato a un autogol clamoroso. Recentemente mi è stato chiesto se usavo la tecnologia o se facevo il pane “tradizionalmente”. Ma che vuol dire? Facciamo un esempio: la spezzatrice arrotondatrice. Io uso Vitella, ho percepito immediatamente la portata di questi macchinari quando li ho visti. La velocizzazione dei processi produttivi è l’aspetto più vantaggioso di tutti. Nel nostro laboratorio facciamo infornate di circa 350 forme al giorno. Se dovessi stare a tagliare a mano 300/350 pani al giorno, sarebbe un dispendio di tempo enorme. Quindi queste macchine ci permettono di velocizzare la produzione, ma anche di avere prodotti standardizzati. Inoltre, queste attrezzature hanno abbattuto di molto gli errori manuali, migliorando la qualità dei nostri prodotti.

 

a cura di Atenaide Arpone