Grande Cucina

L’Alfabeto di Ellegì di Licia Granello. F come Formazione

La notizia è fresca freschissima: la famiglia Cerea - ristorante Da Vittorio, storico tre stelle Michelin a un passo da Bergamo - ha inaugurato un'estensione della Vittorio Cerea Academy - istituita sei anni fa presso l’Istituto Alberghiero Guido Galli di Bergamo - a uso e consumo interno.

Una scelta che permetterà ai dipendenti di accedere in orario di lavoro e gratuitamente a corsi di specializzazione, dalla mixology ai formaggi, dal caffè alla sommellerie, su su fino alla comunicazione col cliente (fondamentale quanto e più delle opzioni precedenti).

Non è poco, e non è casuale che a farlo sia la macchina da guerra gastronomica più importante e prestigiosa d’Italia. Perché negli  anni, da quando Bruna e Vittorio Cerea tolsero il biliardino per far posto ai tavoli nel bar-trattoria appena rilevato nel cuore di Bergamo bassa, la storia dei Cerea è diventata paradigmatica dell’evoluzione della ristorazione italiana. Far arrivare il mare in una città che poco o nulla sapeva della cucina di pesce, ma anche parcheggiare le macchine dei clienti. Caviale e Don Perignon, ma anche ingredienti poveri, dalle frattaglie alle patate. Servizio amichevole, ma anche una professionalità senza sconti. Di genitori in figli – mentre già si affacciano in azienda i figli dei figli – i Cerea con il loro capofamiglia (primus inter pares) Chicco hanno tracciato la via, disseminando il percorso di briciole preziose.

Per questo l’idea dell’Academy interna deve far riflettere. Non sono tanto gli attestati di partecipazione e nemmeno le possibilità di accedere a corsi di livello superiore a fare la differenza, ma l’esigenza tangibile di dare ancora maggior spessore, dimensionando in modo circolare il mestiere dell’ospitalità a tavola. La formazione a 360 gradi, insomma.

L’esperienza

Le scuole di formazione si sono moltiplicate man mano che crescevano fatturati e posti di lavoro.

Quarant’anni fa, quando i cuochi giapponesi cominciarono ad andare in Langa a imparare a fare i tajarin, le ricette, fatte di tecnica e  manualità per realizzarle, erano totalizzanti dell’esperienza gastronomica. Si poteva mangiare divinamente in luoghi dove ci si sentiva più o meno tollerati, perché i piatti erano dirimenti. Si contavano sulle dita di una mano i ristoranti dove il servizio era all’altezza del menù, citando a memoria i Grandi di Sala: Antonio Santini, Giorgio Pinchiorri, e su tutti l’inarrivabile Livia Iaccarino. Non a caso, tutti e tre assidui frequentatori dei migliori ristoranti di Francia.

Proprio la scuola francese prima e quella spagnola poi hanno spostato lentamente e inesorabilmente l’equilibro verso il concetto di esperienza. Come per un concerto, una pièce teatrale o una manifestazione sportiva, l’evento ha bisogno di un supporto a tutto tondo, altrimenti non arriva là dove deve arrivare, ovvero all’anima delle persone che vi partecipano, con annessa voglia di rivivere quel momento.

La competizione sala-cucina

Perché il concetto stesso di formazione inglobasse entrambe le componenti del ristorante ci è voluto del tempo e il percorso ancora non si è compiuto. Per molto tempo (troppo) i nostri ristoranti sono stati afflitti dalla guerra più o meno dichiarata tra sala e cucina. Infinite le materie del contendere: la distribuzione delle mance e il timing delle uscite dei piatti, la pulizia dei locali e i turni della chiusura… Un equilibrio assolutamente precario, disseminato di vassoi lasciati cadere e dimissioni fulminee. A supportare il paziente lavoro di cucitura tra chi cucina e chi serve, negli anni sono arrivate scuole specifiche come quella delle sorelle Cotarella, non a caso battezzata “Intrecci – Alta Formazione di Sala“, mentre altre, come Alma e Congusto Gourmet Institute, offrono corsi specifici per manager di sala.

Formazione e fidelizzazione

Crisi economica e pandemia, guerre vicine e tecnologie inquietanti contribuiscono a rendere indispensabile il passaggio a una ristorazione davvero armonica tra dentro&fuori, una sorta di free-zone dove rallegrare contemporaneamente palato e cuore. Ma per far passare il concetto “olistico” di ristorante occorre che tutti si sentano coinvolti. Finora, la soluzione più diffusa è stata quella di legare principalmente il cuoco (quando non proprietario) offrendogli delle quote.

I corsi di formazione interna, cucina e sala unite, rappresentano un passo di lato, un’opzione – ovviamente non concorrenziale alle scuole – per accrescere, insieme alla professionalità, l’orgoglio di appartenenza. Le storture del rapporto domanda-offerta, con la difficoltà acclarata di trovare (e trattenere) personale all’altezza, rendono questo percorso ancora più interessante. Far camminare insieme formazione e fidelizzazione : non facile, ma necessario.

a cura di Licia Granello