Pietro Leemann

Mio padre era amico di un grande cuoco e gastronomo ticinese, Angelo Conti Rossini. Invitato un giorno a casa nostra, Conti Rossini ci portò in regalo una “charlotte russe”, una bavarese di vaniglia con una corona di biscotti savoiardi. Allora avevo quindici anni e non sapevo ancora che cosa fare della mia vita. Con poca convinzione assaggiai il dolce. Rimasi folgorato.
Profumava di biscotti ancora fragranti e di buona vaniglia, la consistenza era appena resistente e cedeva in bocca, il gusto era persistente e saturo al punto giusto, grazie al lungo mescolamento dei tuorli d’uovo con lo zucchero, come appresi in seguito. Ne mangiai almeno la metà e capii quale fosse la mia strada.
Nel 1978 iniziai la mia carriera di cuoco: dopo l’apprendistato in un ristorante di cucina classica italiana, lavorai in un locale che proponeva cucina classica francese e mi formai così sulle basi della gastronomia. All’inizio degli anni Ottanta ci fu il boom della nouvelle cuisine che cambiò molti dei parametri della cucina tradizionale. Con l’aiuto di Angelo Conti Rossini riuscii a entrare nella brigata del grande Fredy Girardet di Crissier, in Svizzera, che in quegli anni era un caposcuola di quello stile. Terminata l’esperienza, venni per la prima volta in Italia lavorando con l’altrettanto grande Gualtiero Marchesi, che proponeva la sua cucina creativa italiana. Fredy Girardet mi insegnò il rigore sul lavoro e l’intransigenza nel rispetto dei parametri della qualità, Gualtiero Marchesi mi insegnò a pensare la cucina. Era un periodo magico in cui la qualità della ristorazione raggiungeva livelli altissimi ed erano evidenti grande fermento e grandi cambiamenti. D’altra parte non ero soddisfatto, mi sembrava che la cucina fosse “chiusa” in limiti culturali e territoriali. Il mondo del cuoco (con l’eccezione di Marchesi e di pochi altri) era confinato alla cucina, le salse erano montate al burro e alla panna fino alla saturazione con il grasso. C’era una contraddizione nei termini, tra “dare gusto a un cibo” aggiungendo sale e pepe e “alleggerire” una salsa arricchendola con burro o panna. Era di moda mangiare il piccione poco cotto e con cosce e petto separati, lo stesso piatto si trovava allora a Parigi come a Milano. La Francia era il centro della grande cucina e il grande modello da seguire, tutto il resto era periferico e di secondaria importanza. Iniziai a interessarmi ad altre strade, si cominciava
a parlare di cucina vegetariana e colture biologiche e per sperimentarle di persona divenni vegetariano per due anni. Al ritmo di un appassionato lettore di libri gialli, con alcuni libri di cucina alla settimana, nutrivo la mia sete insaziabile di conoscenza, mi sentivo però sempre come se indossassi dei vestiti stretti e un cappello non adatto.